Pat Metheny a Genova, la recensione del concerto
Scritto da Redazione il 31 Ottobre 2024
Pat Metheny – Dream Box Tour al Teatro Carlo Felice di Genova
29 ottobre 2024
Quando era stata l’ultima volta che ero salito in superficie? Tre mesi fa, più o meno. Stasera faceva molto meno caldo, e sono stato tentato di lasciare la tuta di neoprene, almeno sotto l’anonimo completo grigio che ho trovato al solito angolo, quello vicino alla scala che mi porta su, verso il porto. Una breve passeggiata, ed eccomi al Teatro Carlo Felice.
Un’acustica splendida per un concerto di cui in molti mi avevano parlato: Pat Metheny, il genio della chitarra.
All’inizio sembra che io debba assistervi dall’ultimo ordine di posti in galleria, poi alla fine mi sposto, scendo giù in platea e mi godo una vista totalmente libera su uno show set misterioso: le chitarre ci sono, ma spiccano tre installazioni coperte a cingere lo strumento che Pat predilige. La curiosità è tanta, Metheny ha fatto sold out qui a Genova per la sua tournée italiana, il Dream Box/Moon Dial Tour che, mi accorgo, ha molto in comune con i Manholes di Ubik.
Il percorso, anzitutto, ogni tappa la sua importanza, dalla chitarra acustica alla baritona, alla favolosa chitarra composita Picasso a 42 corde, una selva di manici e tonalità da arpa. Il viaggio, poi, da sempre fondamentale in se’ per Ubik, e da sempre suggestione ammaliante per Metheny. Un viaggio insieme evocativo e commotivo, con l’omaggio al compagno di tanto cammino Charlie Haden.
E infine il percorso solista, che scivola tra corde, tastiere e aneddoti, la tradizione musicale familiare che però si incentrava sulla tromba; lui, il figlio degenere che sceglie invece questo strumento così indefinibile, la chitarra, che evoca Hendrix, ma anche Segovia, oppure la Garota de Ipanema e altri standard che scivolano dall’etnico alla ambient music al jazz. Un jazz gentile, che però non manca di momenti di durezza sperimentale, ancora corde strusciate e grattate e quindi il ritmo che ci salverà tutti.
Ma non basta. In un teatro in cui basta levare uno smartphone per essere tempestati di fastidiosissimi laser rosso fuoco – Metheny ha proibito le riprese col cellulare del suo concerto – a un certo punto si disvela la natura delle installazioni: sotto i teli scuri altre chitarre e un basso, in una frenesia da installazione che musicalmente si traduce in temi che si intrecciano e si sovrappongono come in un’orchestra.
E infine l’Orchestrion vera e propria, l’orchestra elettromeccanica, un vero gioiello anche questo accumulativo, un omaggio inconsapevole a Otto e Barnelli: una selva di bacchette che, in fila ordinata, percuote pelli all’unisono, xilofoni che si animano e luci che vanno su e giù come specials di un antico flipper. Così come va su e giù la meraviglia di Ubik, di tempo in tempo solleticato, percosso, carezzato da arie elaborate e insieme immediate come la vita.
Così come immediato e’ il modo in cui Pat spiega l’accordatura della chitarra baritona, in realtà una faccenda molto complessa, che necessita corde di tipo adeguato, e non ne girano molte, solo nei posti giusti, per dirla come ne parlerebbe qualcun altro.
La tempesta perfetta, verrebbe da dire, un occhio di ciclone in cui alla fine, dopo tanto peregrinare armonico, tra uno standard e l’altro, si capisce che ci si è fermati su una nuvola a contemplare il Nirvana.
Cinquant’anni di musica in poco meno di due ore, cinquanta album e cinquanta ispirazioni diverse. Il folletto Pat Metheny, l’iconica zazzerona ormai sale e pepe per settant’anni portati benissimo, concede tre magnifici bis, poi saluta. Stonato da tanta bellezza, Ubik scivola nelle sue familiari ombre e, muovendosi al ritmo di una malinconica bossanova, riguadagna le sue gallerie. Riemergerà ancora, molto presto.
by Ubik
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