Queens Of The Stone Age a Roma – La recensione del concerto

Scritto da il 5 Luglio 2024

Queens Of The Stone Age

Roma, 4 Luglio 2024, Auditorium Parco Della Musica

Live Report

 

 

 

Toh! Un concerto rock.

Diciamolo sottovoce sennò qualche neo-benpensante potrebbe storcere il naso.

In genere sono quelli che il rock lo hanno ascoltato, eccome, per trent’anni o più ma ora sono persuasi che sia una cosa del passato.

Un po’ come il Colosseo o meglio ancora la Torre di Pisa, che è una roba un po’ stortarella ma sta lì da secoli e alla fine non molla neanche un centimetro. Ogni tanto vale la pena fargli una visitina, ma nel frattempo il mondo è andato avanti.

I Queens of the Stone Age sono un monumento.

Noi romani di monumenti ne sappiamo qualcosa, ci insegnano da quando siamo ancora in fasce a rispettarli.

Quindi eccoci qua, in tanti. In queste occasioni mi piace fare il periscopio tra le teste del pubblico, prendendo mentalmente nota di acconciature, t-shirts, accessori e se riesco anche calzature del pubblico. Tanto per farmi un’idea di chi ho attorno, una sorta di indagine demoscopica fai-da-te.

Età media piuttosto alta,  provenienza… direi centro-sud più una una coppia di francesi incrociata al lussuoso stand del merchandise.

Sulle acconciature è facile farsi un’idea, data l’età media, ma una cosa salta subito all’occhio: sono tutte facce da rockers.

Capisci al primo sguardo che almeno una passione tra birra, tatuaggi e viaggi in moto ce l’hanno o l’hanno avuta.

L’amore per il rock lo diamo per scontato, ma per quello ci sono i QOTSA.

L’ingresso sul palco è trionfale, e se il fonico di sala fosse stato un po’ meno distratto, l’attacco di Little Sister sarebbe stato ancora più devastante. Livelli da mettere a registro e… hey! La voce di Josh Homme? “Mister soundman, tutto ok?”

I fans della primissima ora sono ricompensati da Monsters in the Parasol, mentre dal punto di vista sonoro le cose iniziano a funzionare davvero.

I mostri sono loro, guai a ritrovarseli sotto il letto. Brutti, sporchi, cattivi e picchiano come fabbri.

Smooth Sailing suona come un auspicio, anche se stasera non tutto sembra andare come previsto.

My God is The Sun manda a fuoco tutto. Una bomba incendiaria. Troy Van Leewuen alla chitarra contende la scena a Homme.

I due si rimpallano con gioia il ruolo di frontman. Dean Fertita sta nelle retrovie, si direbbe per scelta perché il suo contributo è davvero fondamentale. Il light-show minimale fa il resto.

Jon Theodore e Michael Shuman alla ritmica sono inarrestabili, ma con gesti da consumato showman Homme riesce a tenerli a bada quando mette in pausa le corde vocali per condurre il coro “Baby don’t care for meeeee” della Cavea gremita. Sarà l’Emotion Sickness, saranno i microfoni direzionali, sarà un po’ di sfiga ma a tratti la voce si perde e si rompe anche un ampli. Ma Ginger Elvis è un intrattenitore nato e un maestro del rock-talk e riesce a trasformare tutto in grande spettacolo. È visibilmente divertito e trascina la folla con sé, sfoggiando anche un perfetto italiano, e si direbbe una conoscenza dello slang piuttosto approfondita. Speriamo che i benpensanti di cui sopra in certi momenti avessero le orecchie tappate, casomai avessero deciso di far visita.

Ma stasera va così: Go With the Flow, direbbe qualcuno.

Che potenza, che album pazzesco era, ed è, Songs for the Deaf. Fortuna che ogni tanto (troppo) vengono a ricordarcelo.

Dal passato più remoto ecco The Lost Art Of Keeping A Secret, da quello recentissimo di In Times New Roman, la ricercatezza del suono e dell’arrangiamento di Carnavoyeur, sostenuta da un basso super effettato e-quando meno te lo aspetti-ecco un bel solo di batteria di Theodore, nella migliore tradizione live. Siamo a un certo rock, giusto?

Better Living Through Chemistry è un vero trip. Il quintetto ci dà dentro come se ne andasse delle loro vite. Homme ha il pubblico nelle sue mani, potrebbe costringerci a fare quello che vuole. Ci chiama “Sick, Sick, Sick”  e noi andiamo fuori di testa, ci fa cantare Make It Wit Chu a turno quasi fossimo a un’audizione e noi siamo felici. Infine ci comunica che non ci saranno bis perché “vuole stare più tempo con noi” e noi gli crediamo.

Come fai a non credergli? È Ginger Elvis! Forse meno ginger e un po’ più Elvis. Per trenta e passa anni ha trasformato in oro quasi tutto quello che ha toccato. È talmente a suo agio nei panni della rockstar che maturando è persino più affabile, quasi simpatico. Il ghigno malefico che lo ha sempre caratterizzato ha lasciato il posto a un sorriso sincero. Pensare che-forse-quando ha iniziato a fare musica il concetto stesso di rocker cinquantenne lo avrebbe inorridito.

È tempo per l’omaggio al Mark Lanegan di God Is In The Radio. (Ci manchi Mark, enormemente.) No One knows è un vero delirio.

Song For the Dead la mazzata finale. Sembra quasi di vederlo, Mark, immobile al centro della scena mentre attorno a lui c’è l’inferno, sopra e sotto il palco. Dopo circa un’ora e mezza è finita. Niente bis, come promesso. Ovvio che ne vorremo ancora, ma che serata!

Speriamo che sia un arrivederci e non un addio, dieci anni tra una visita e l’altra sono davvero tanti.

EDIT: mentre scriviamo, arriva la notizia della cancellazione della data di stasera a Bassano del Grappa per motivi di salute, con conseguente allarme rosso per quella degli I-Days il 6 luglio a Milano.

Questo naturalmente rimette tutto in prospettiva, e il previsto augurio di lunga vita ai QOTSA che avrebbe concluso questo live report si trasforma immediatamente nel meno solenne ma ugualmente sentito “pronta guarigione”. Sarebbe davvero un peccato… incrociamo le dita!

 

La setlist:

Little Sister

Monsters in the parasol

Smooth Sailing

Paper Machete

My God is the sun

Emotion Sickness

If I had a tail

Time & place

Go with the flow

The lost art of keeping a secret

Carnavoyeur

Better living trough chemistry

Sick, Sick, Sick

Make it wit Chu

God is the radio

No one knows

A song for the dead

 

 

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