Bella Ciao

Scritto da il 25 Aprile 2025

Bella Ciao è la prima canzone “da adulti” che ho imparato nella mia vita. Mi è stata insegnata all’asilo da due suore. Si, avete letto bene, due suore che, quanto a severità ed intransigenza, non avevano nulla da invidiare alla Psicopolizia di 1984. Era sufficiente che loro accennassero i primi versi ed il refettorio, come la curva di uno stadio, le seguiva in un istante. La fase di apprendimento era priva di convenevoli, dovevi solo provare ad andar dietro ai bambini più grandi che già la conoscevano.
Nessuno venne mai a raccontarci cosa stessimo realmente cantando. Eppure, in quelle parole c’era qualcosa di solenne e fiero, anche per le orecchie disattente di oltre duecento bambini che ancora ignoravano il senso di certi aggettivi. Alla fine quella ballata, un po’ marziale e dal tono desueto, era diventata anche il grido di battaglia che usavamo quando (lontani dalle severe mani delle suore) giocavamo alla guerra. Forse non era esattamente l’apoteosi della tradizione orale applicata al microcosmo di una scuola materna, ma direi che ci andava parecchio vicino. Bella Ciao scandiva immancabilmente la vita della nostra scuola fornendo una pratica soluzione a quotidiane esigenze di tipo organizzativo e disciplinare. Saltava fuori se c’era da attendere l’arrivo del pranzo, oppure quando gli ultimi minuti prima della campanella sembravano infiniti o, ancora, in tutti quei casi nei quali l’esuberanza dei pargoli andava pur tenuta a bada in qualche modo. Insomma, era un modo assai efficiente per tenerci impegnati o richiamarci all’ordine.
Più che una canzone, assomigliava ad un mantra. Ricordo perfettamente che una volta, prima dell’inizio della recita di Natale, la improvvisammo per intrattenere i parenti, mentre suor Franca finiva di sistemare le luci. Nessun genitore ci trovò nulla di strano o, peggio, di offensivo.
Erano gli anni di piombo, ma in quella cattolicissima nonché borghesissima scuola materna ed elementare della Roma bene, Bella Ciao veniva salutata da applausi scroscianti, sinceri e (verosimilmente) molto democristiani.
Inizialmente, a noi bambini, è del tutto evidente, sfuggiva il senso del testo e mentirei o sarei in mala fede se solo provassi a convincervi del contrario. Eppure, almeno per quel che mi riguarda, qualche tassello, a poco a poco, iniziava a finire al suo posto. Alcune candide domande intorno a parole che ripetevo quattro o cinque volte al giorno cominciavo a farmele. Non avevo avuto bisogno di aiuti esterni per capire che, in un mattino apparentemente uguale ad altri, qualcuno si era alzato dal letto accorgendosi di avere in “casa” degli “invasori”. Ingenuamente, mi chiedevo se, per caso, questi non fossero magari venuti a conquistare la terra dal pianeta Vega, proprio come accadeva nelle puntate di Goldrake. L’interpretazione mi pareva assai verosimile, quelli dovevano essere i “cattivi” della storia. In un’Italia (come al solito) falsamente moralista che con i morti agli angoli delle strade si interrogava sul ruolo educativo dei cartoni giapponesi, Go Nagai mi stava dando una grande mano. Tuttavia il vero problema era rappresentato da una parola che proprio non riuscivo a capire. Non c’era verso di venirne a capo ma, fortunatamente, conoscevo chi mi avrebbe certamente dato la risposta che cercavo: “Nonno ma che vuol dire partigiano?”

Le storie della guerra, nei miei ricordi, sono presenti sin dal primo istante di cui ho memoria. Mio nonno paterno, con me, non fece mai mistero del motivo per cui, giovanissimo, fu costretto a lasciare l’Inghilterra per venire a combattere in Italia. I miei nonni materni, invece, mi raccontavano continuamente dei bombardamenti nei quali avevano perso tutto e di come, una volta fuggiti da Cassino, erano riusciti, dopo settimane a piedi tra le montagne, a raggiungere finalmente Roma. In tre, insieme, mi spiegarono che partigiani sono tutti quelli che difendono la propria casa e la propria terra quando qualcuno, senza alcun diritto, prova a prendersele. Finalmente era chiaro che, come già sospettavo, si trattava dei “buoni”.
A crearmi confusione c’era però anche la parte del Portami Via Che Mi Sento Di Morir. Mi arrovellavo per capire chi fosse a parlare. Una donna che si è innamorata del partigiano e vuole andare via con lui? Ma vuole essere protetta o vuole proprio stargli vicino? A posteriori devo ammettere che la mia ingenua lettura aggiungeva alla storia una luce di romanticismo niente affatto fuori luogo. Poi veniva la parte più complicata e dolorosa, quella in cui capivo che qualcuno stava per compiere un atto di coraggio e di generosità. Erano versi totalmente fuori dalla mia portata che mi destabilizzavano. Eppure tentavo comunque di decodificare il messaggio e, traducendo i pensieri di un bambino degli anni ’70 con le parole di oggi, riflettevo più o meno così:

Se Io Muoio Da Partigiano, quindi se perdo la vita difendendo qualcuno o qualcosa, allora poi Tu Mi Devi Seppellir / Lassù In Montagna / Sotto L’ombra Di Un Bel Fior. E’ come se questo partigiano mi chiedesse un piccolo gesto di affetto, dopo aver fatto qualcosa di grande per me. Vuole avere una tomba in montagna perché forse quello è un posto che ama, oppure è casa sua e vuole stare lì. Chiede l’ombra di un fiore, uno e basta, una cosa semplice perché non serve che fai chissà cosa per dimostrare affetto e riconoscenza a qualcuno.

Apro una parentesi: questa storia dell’ombra del fiore era la parte che preferivo, penso sia stata la prima immagine retorica che mi ha affascinato. Alla fine arrivavano i versi con i quali provavo a mettere insieme tutti i pezzi del puzzle:

E Tutti Quelli Che Passeranno Mi Diranno Che Bel Fior / E Questo E’ Il Fiore Del Partigiano Morto Per La Libertà. Ma certo, perché se qualcuno ti aiuta e si sacrifica per proteggerti poi mica lo dimentichi.

Non credo di essere stato un bambino più sveglio degli altri. So per certo, perché nel corso degli anni abbiamo avuto spesso modo di parlarne in più occasioni, che spiegazioni non dissimili dalle mie le trovarono anche i miei compagni di scuola. Bella Ciao, con quella melodia tipicamente est europea, con leggere influenze yiddish, totalmente estranea alla tradizione popolare italiana, è come una preghiera laica sulla quale sono appoggiati dei concetti basilari dell’umana esperienza: la paura, la generosità, la misericordia, la pietà, il diritto ad essere liberi non solo in casa propria ma sempre, ovunque e comunque.
Che tu stia combattendo tra i sentieri di montagna o ti stia alzando dal letto in una tranquilla mattina della tua vita, dovrai sempre fare i conti con quei concetti, li dovrai accettare, li dovrai gestire, dovrai trovare il modo di metterli insieme, dovrai imparare a conoscerli (per conoscerti ) ma, soprattutto, non dovrai mai tenerli chiusi in un cassetto perché avranno bisogno di essere condivisi in ogni modo possibile. Quelli sono i soli materiali che abbiamo a disposizione per imparare a vivere, pacificamente, senza creare inutile dolore, insieme a chi ci sta intorno. Bella Ciao viene cantata da chiunque, in ogni parte del mondo, anche da chi non conoscere minimamente la nostra lingua ma non di meno comprende, in modo inconscio e subliminale, il messaggio universale (rivolto all’anima ancor prima che alle orecchie) della libertà che infrange il giogo delle altrui imposizioni.
Tutto questo, ecco il motivo della sua grandezza, lo racconta senza far ricorso a transitorie etichette politiche di alcun genere poiché, per parlare del “coraggio dei giusti”, non ha bisogno di infierire sui carnefici esaltando, in questo modo, tutta la pietà che permea ogni suo verso. Bella Ciao non è la canzone di chi trionfa ed umilia gli sconfitti. Bella Ciao sta seduta su un altro gradino. E’ una canzone senza colore che non ha vincitori né vinti. Il suo è un canto di pura resistenza dell’anima. Bella Ciao è la canzone di chi stringe i denti per non lasciarsi scivolare dal cuore e dalle mani quei valori faticosamente costruiti con mattoni fatti di terra, famiglia e diritti. Bella Ciao parla di individui che difendono la propria casa ed i propri affetti e ci spiega il trasversale patriottismo che è alla base della civile convivenza. Bella Ciao è di tutti. Bella Ciao è una lettera d’amore non solo alla società, ma direttamente all’umanità. Lo era 80 anni fa, lo era nel 1979, lo è oggi e lo sarà sempre. Per cantarla non occorrono bandiere, basta indossare un grembiule bianco.

By Manuel Nash

 

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