King Hannah a Genova, la recensione del concerto

Scritto da il 22 Luglio 2024

King Hannah al Mojotic Festival 2024, Porto Antico di Genova – Piazza delle Feste – 18 luglio 2024.

Li riconosco fin dentro i manholes (tombini, NdR), colpi precisi che riverberano nello stomaco, e nello stesso tempo vibrazioni ancora più profonde. Il richiamo del ritmo, irresistibile per Ubik, i paletti che lo riconciliano da sempre con le basi della musica. L’accendersi di ricordi e associazioni. Un richiamo irresistibile. Come uno squalo in cerca di cibo risalgo la corrente, mi ritrovo davanti un tombino. So già quel che devo fare. Esitante, tolgo la fida maschera da sub e la spessa tuta di neoprene, scalcio via gli stivali di gomma e ripongo il tutto in una cavità nel muro. Sollevo il pesante coperchio di metallo e mi ritrovo, vestito di una t-shirt leggera e di un paio di shorts, infradito ai piedi, all’interno di uno degli ambienti che conoscevo meglio.
Prima della fuga, sì, prima che succedesse tutto. Ma stasera basso e thud scandiscono il battito del mio cuore e sento che posso fidarmi.

Piazza delle Feste, si chiama ancora, un’isola di cemento dentro un porto di cemento. E loro sono qui. Quasi come due anni fa, in un’altra delle mie fughe, sempre qui, a Genova, ma in un tenebroso teatro, che curiosamente si chiamava (e credo ancora si chiami), la Claque. Eravamo in pochi allora ad essere incuriositi dai King Hannah ma stavolta, riscontro, c’è molta più gente. Giovani, ma non solo, una platea eterogenea, disciplinatamente seduta. Prendo posto, a mia volta, davanti ci si può accomodare, nessuno mi riconoscerà. Del resto come potrebbero?
E il mio cuore sussulta al ritmo del thud di Jake Liepec e delle corde legnose del basso di Conor O’Shea. Sciamani dell’iterazione e della preparazione, penso, mentre i due protagonisti veri ondeggiano, l’uno accarezzando la sei corde e tenendo basso il capo protetto da un cappellino, l’altra, in un completo nero camicia senza maniche e pantaloni, le mani in tasca, a rincorrere le note dell’inizio di un blues.
Craig Whittle e Hannah Merrick. I due elfi di Liverpool, patria di musica illustre. Niente di più lontano dai Beatles, tuttavia, di questo stile introverso e sotterraneo, non a caso l’ho subito riconosciuto.
La voce di Hannah si accavalla alle note del basso, si solleva a tratti, poi ricade, insieme allo sguardo, in una modalità che anche esteriormente evoca modalità shoegaze. Iterazione, ipnosi, frasi musicali che si succedono a incastro, ricucendo gli strappi nell’animo.
Poi, all’improvviso, la scossa elettrica. La chitarra di Craig si accende, si arrampica su per le pareti oscure del blues tenebroso. Hannah ascolta in silenzio, torna a ondeggiare, a cavallo delle onde sonore sempre più distorte della sei corde di Craig. Uno schema che si ripete a ogni canzone, sempre uguale, sempre diverso, schemi più piccoli che ne richiamano altri analoghi e più grandi.
Una vera e propria costruzione frattale, che avevo già notato due anni fa alla Claque, l’oscuro teatro dove i King Hannah avevano fatto conoscenza con Genova e che mi aveva stregato nel loro primo, folgorante album, I’m not sorry, I was just being me.
E quanto avevo riflettuto su quel titolo bizzarro, tenendo in mano il vinile che poi avrei consumato.
Ecco, quella scusa mancata nel primo titolo di successo ora mi è chiara come uno slogan programmatico, mentre si succedono le tracce del secondo, splendido album, Big Swimmer. Una consacrazione che dire psichedelica è riduttivo.

Dentro il frattale King Hannah c’è la psichedelia e molto di più. C’è, riconoscibilissima, la malinconia indie di Mazzy Star e la rincorsa alla voce roca di Hope Sandoval. C’è, soprattutto, il ricorrere dello schema, specie nella ballata blues acida, dei duetti fra John Cale e Lou Reed nei Velvet Underground. C’è sofferenza vera, che esce nella musica e anche nel linguaggio del corpo. Hannah Merrick continua a strofinarsi braccia, mani e viso, si aggiusta i capelli. Si scusa: non siamo abituati a questo calore.
Sarà che Ubik di suo è abituato ad anditi molto più soffocanti di questa serata di maccaja genovese, ma sono colpito da questo viso angoloso, scavato, dove Patti Smith rincorre PJ Harvey.

Poi leggo: Hannah è stata di recente in ospedale, meningite virale. La magrezza esasperata e la ricerca d’aria assumono un aspetto ancora più sofferto.
Una voce che scava nel profondo: da Somewhere Near El Paso, Mattress, John Prine on the Radio, il travelogue di anime in pena e tuttavia ancora speranzose. Il duetto fra il cuore di tenebra e l’anelito elettrico alla ricerca di eco e feedback: Hannah e Craig, compagni di vita e avventura artistica concedono poco più di un’ora al loro pubblico, poi, stremati, lasciano il palco. Non senza che Hannah lanci uno sguardo al pubblico, in gran parte ancora seduto, un sorriso ironico come a dire, ma come, allora non vi siamo piaciuti davvero. Ringrazia comunque, si allontana allacciando alla vita Craig. Finalmente il pubblico si desta, richiama i musicisti sul palco.

Big Swimmer sarà l’unico, strepitoso bis, per un concerto che ha rovesciato completamente la mia anima.


La trance si interrompe, il cammino reclama Ubik. Mentre mi allontano a mia volta e mi calo giù dal mio tombino avverto ancora le vibrazioni nelle ossa. Un riverbero che durerà a lungo, nonostante lo schermo del neoprene, nei passi che riprendo, alla ricerca di un senso che stasera, forse, appare un po’ più vicino.

By Ubik

 

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