La linea c’è. Il ritorno a Genova dei CCCP
Scritto da Redazione il 29 Luglio 2024
Uscire dai miei cunicoli di nuovo? Perché? Troppo pericoloso. Fuori ci sono malintenzionati. Virus. Fuori non è nel mio controllo.
E tuttavia…
L’ultima volta mi sono divertito. Era tanto che non ascoltavo musica, e quel gruppo, King Hannah, si chiamavano, suonava bene. Mi ha fatto ricordare di..
Di Prima. Di quando…
Ma non ha importanza. Non si vive di sola sopravvivenza.
Così, quando ho scoperto che Quelli di Fuori avevano invitato Loro, non ho potuto resistere. Sono passati solo pochi giorni, lo so, è rischioso.
Ma a chi deve chiedere conto Ubik se non a se stesso?
Così mi sono rimesso in cammino per lo stesso cunicolo, quello che sbocca in porto. Ho riposto la mia tuta di neoprene, maschera, stivali e fucile nel solito spazio nascosto nel muro. Ho indossato pantaloncini corti, anfibi dalla punta rinforzata e una logora maglietta azzurra con lo stemma della vecchia repubblica jugoslava sul petto.
Tanto per cambiare. Fedele alla linea. Alla mia. Tanto la linea non c’è.
Così sono sbucato sul porto. Mi sono allontanato furtivo lungo i marciapiedi dei vecchi Magazzini del Cotone, meravigliandomi di quanta gente ci fosse. Tutti diretti dove sono diretto io. Il molo più estremo, dove hanno allestito un grande palco.
E c’è gente. Tanta gente. I vecchi condizionamenti da fuggitivo entrano in funzione. Conto a spanne. Più di tremila. Tremila e cinquecento. E seicento, forse.
Ma davvero la gente non ha paura di contagiarsi, così stipata? Con questo caldo, poi? Decido di usare i miei filtri nasali, la serata è appena cominciata.
Il caldo è palpabile, viscido come un’anguilla.
Ed eccoli arrivare, un’ovazione che li saluta.
Ciò che fu ciò che è stato, ciò che è scampato. Cellula dormiente risvegliata al presente… All’erta sto, inquieto l’orizzonte, all’erta sto.
Così recita Annarella, conta il tempo sulle dita e sembra guardare proprio me.
De te fabula narratur, leggevo da ragazzo. Questa storia narra anche di me.
Così mi abbandono, inizio a muovermi. Depressione Caspica, la prima staffilata che arriva da una generazione addietro. Ricordo le lacrime, quando seppi che si erano sciolti.
In-fedeltà, la linea c’è. I CCCP sono tornati. Il tempo ha lasciato tracce. Nella ieraticità sempre più marcata di Giovanni Lindo Ferretti, anima e voce, appena un po’ incrinata dagli anni e dalle vicissitudini di vita. Nella chitarra sempre più grattuggiata e nelle rughe che spiccano sotto il basco e la zazzera di capelli di Massimo Zamboni. Nel fisico ormai pesante di Fatur. Ma attenzione, sorpresa, l’artista del popolo trova chiave e linguaggi nuovi nel suo eterno situazionismo. Si prende la scena. Passa quella dannata palla attaccata al piede proprio ad Annarella. Che taglia la scena come una spada, la calottina in testa come a Sanremo Rock nel 1988. Eri così carino, proprio un amore di ragazzino. Come allora, oggi con nuova forza.
Spiriti guida. Menade e satiro in una narrazione che usa corpi e parole. E immagini, e suggestioni.
E salmodie. Litanie, rime solo apparentemente facili, periodi che si incastrano frattali.
Sale, l’atmosfera, con Rozzemilia, e arriva, irresistibile, il primo treno umano. Vengo sospinto in avanti, proprio lì, sotto palco, dove le transenne lasciano segni sul corpo. Dove devi pogare anche se non vuoi. Per sopravvivere, mi dico.
Stati di agitazione. Eppure sono vivo, mi ritrovo a gridare con Lindo. Io che sono così solitario, in mezzo a questa nuvola di sudore. Colpi e, scoprirò poi, ecchimosi. Segni a marcare questa esperienza a pelle. Segni che dimostrano senza alcun dubbio la realtà della mia esistenza.
Esperienza quasi mistica. Libera me domine. Annarella come una monaca, il cero acceso in mano, la fiamma immobile a mostrare ancora una volta la mancanza del minimo soffio d’aria.
E tuttavia la voce sale ancora, la mia insieme a quella di tutti, vecchi punkettoni col pugno chiuso e le lacrime agli occhi, a cantare Madre.
Un climax che trova il suo culmine nel grido scandito: C.C.C.P.! in Maciste Contro Tutti.
Sarei al limite, ma Lindo e gli altri inanellano gemme. Radio Kabul, rivista e corretta. Punk Islam. Chi è grande? Chi è il profeta?
Saperlo, Lindo. Io so solo che sono qui, inchiodato al presente come voi.
In questo presente che capire non sai, l’ultima volta non arriva mai.
E come no, anche quello lì col giubbotto color nero che marca la diversità. Punk e ballo liscio. Oh! Battagliero, e i passi di danza accennati con Annarella, poi la spinta, lei che se ne va apparentemente scandalizzata.
Ma poi torna. And The Radio Plays. Tremo per un non so. E poi a sentire la voce quasi cantilenante: la guerra è calda, la pace è fredda. Nella mia mente si materializza il volto di un’altra amica. Mara Redeghieri, la Mara di Üstmamò. Chissà come sta. E scorgo, sul palco, Luca Rossi ed Ezio Bonicelli, che di quel sogno fecero parte. Sorrido, pensando che in questi tempi così interessanti, come direbbero in Cina, non ci sono più limiti all’immaginazione. Il fiume del pogo intanto mi trascina di lato e poi più indietro. Il caldo è una muraglia monsonica compatta, adatta alle visioni.
E la visione arriva puntuale. La bandiera rossa del PCI sventolata sempre da Annarella – e chi se no? Ricordo appena, qualche minuto fa, di avere gridato “lode a Mishima e a Majakovski” con lei che sollevava il simbolo sovietico.
Visioni, appunto, allucinazioni. L’immaginazione che si fa scenografia, condivisa con tutti, senza alcun dissenso. Siamo tutti i CCCP, e i CCCP sono tutti noi.
Incondizionatamente. Tutti esauriti. Tutti nell’Emilia paradigmatica e paranoica, che è anche casa nostra. Due, tre, quattro plegine e chiedi a Settantasette se non sai come si fa. C’è sempre uno che ne sa di più di te. Anche più di Ubik, che cammina solo. Che camminava solo.
Ancora un’esplosione, Spara Juri, di nuovo a saltare e a sentire, uno per uno, i lividi lasciati sul corpo e nell’anima da questo sabba propiziatorio.
Perché questo è: il passato che torna e si fa eterno presente. Nei cupi tempi che hanno spinto Ubik a interrarsi nei suoi cunicoli e a cercare la ragione nei suoi ricordi in musica, tornano i CCCP, cellula dormiente risvegliata, a mostrarci che l’oggi non è così diverso da una generazione or sono.
E allerta sto anche io, Lindo, come te e Annarella e tutti gli altri. Come un russo nel Donbass, come un armeno nel Nagorni-Karabakh. Radio Mosul. Differenze. Similitudini. È una questione di qualità, o una formalità? Ma io sto bene. E sto anche male. La verità è che io non so proprio come stare.
La cupa disco di Vota Fatur. One hundred, one fuck? Vota Antonio.
La musica spinge, più del pogo. C’è bisogno di una pausa.
Lasciami qui, lasciami stare, lasciami così. È tutto quello che io ho e non è ancora finita. O lo è?
Esausto, zuppo di sudore, mi abbatto a terra. Ansante, tra lezzo di corpi surriscaldati e di birra versata. Ma continuando a cantare, con voce sempre più afona.
Sono passate più di due ore. So che di qui a poco la mia strada sotterranea mi reclamerà. Troppo legato sono ormai alla mia vita.
Ma c’è il tempo per l’ultimo sogno. Amami ancora, fallo dolcemente, solo per un’ora, perdutamente.
Cala il sipario. Ma erano veramente loro? O solo un sogno? Non importa, in fondo, perché questo sogno straordinario parlava di me, di te, di noi.
Di tutti.
La linea c’è.
By Ubik
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